giovedì 15 ottobre 2015

LAMPI NELLA NOTTE: ALBINO UNITED FC

di Gianmarco Pacione (per seguirci su fb clicca qui)

L'Albino United durante un allenamento

"Vorremmo solo provare che gli albini sono umani come tutti gli altri"


Difficile essere lampi nella notte, difficile essere abbaglianti umani nel cuore dell'Africa nera, nerissima. Quando un lampo incide l'oscurità, si sa, l'intensa luce dura brevemente prima d'essere di nuovo inghiottita; lo stesso vale per gli albini subsahariani: vittime sacrificali, con il tempo contato, d'occulte tenebre.

Il capitano Mohamed Kassim
Nascere albino in Tanzania equivale ad essere un'eccezione su 1429 (cifra record in tutto il globo). Nascere albino in Tanzania equivale ad essere, irrimediabilmente, un maledetto.

Fisicamente l'assenza totale, o parziale, di melanina obbliga gli albini ad una saltuaria esposizione al sole, per evitare tumori della pelle e bruciature; a questo enorme disagio vanno aggiunti gravi problemi degli occhi, relativi alla depigmentazione dell'iride.

Il vero incubo di questi ragazzi, però, è distante anni luce dai gestibili problemi anatomici. Lo si trova disperso nel polveroso confine tra sociologia e religione: annidato in secoli di tradizioni magiche ed ancestrali credenze.

Per gli "mgangi", sciamani dell'Africa Orientale, gli albini sarebbero difatti incarnazioni degli spiriti immortali "zeru-zeru": corpi naturali con poteri soprannaturali, insomma. Membra pregiate che, diventate reliquie, sarebbero in grado di regalare soldi, benessere e bellezza a chiunque le possieda. Da decadi continua così una sanguinosa caccia cromatica, al solo fine d'ottenere parti del corpo d'un albino, per poi creare amuleti e pozioni esoteriche.


"Hanno trucidato una bambina di 4 anni la scorsa notte, giocheremo anche per lei"


Succede ogni giorno, forse anche in questo preciso istante. Ricchi tanzaniani assoldano sicari, capaci d'amputare o uccidere in brevissimo tempo albini di qualsiasi età.
6mila sterline per la pelle, 65mila per gli organi interni, 130mila per un corpo intero: cifre da capogiro per un Paese in cui il 60% della popolazione vive con poco più d'una sterlina al giorno.

Amuleti albini dei "mgangi"
La risposta della comunità albina è il grido senza voce tipico dei perseguitati, scandito da fughe, nascondigli e segretezza. Un silenzioso tabù, spezzato da una sfera che ha iniziato, solitaria, a rimbalzare.

Creato nel 2008 grazie alla visionaria intuizione di Oscar Haule, businessman (non albino) della metropoli Dar es Salaam, l'Albino United fc rappresenta una speranza sociale per affrontare ed eliminare questa cruenta discriminazione.
Il progetto umanitario ha rapidamente girato il globo, sensibilizzando popoli attraverso l'illimitata potenza comunicativa del futbol.

I ragazzi di Haule si allenano la sera, al crepuscolo, evitando d'essere bersagliati dai raggi africani. Negl'introvabili video che li ritraggono sembrano fantasmi con gli occhi socchiusi, sforzati, alla disperata ricerca visiva del pallone; spettri sorridenti, intenti a fluttuare su scarpe scalcinate o su chiari piedi nudi. 

Riscaldamento prepartita

"Hai fischiato il rigore solo perchè siamo albini"


Per capire le radicate credenze tanzaniane, basta passare in rassegna i volti degli spettatori di fronte a questa squadra unica: piogge di prese in giro, insulti e risate sono il normale trattamento durante una partita di Third Division tanzaniana.
Arbitri in cattiva fede ed avversari straniti si aggiungono ed accumulano gara dopo gara.

Per gli undici ragazzi dalla pelle lucente la vera partita è proprio questa: "Vincere gare per sconfiggere i pregiudizi -dice capitan Kassin-, da quando gioco con questi ragazzi mi sento molto più sicuro". Un messaggio di speranza in ogni cancha sabbiosa della Tanzania.

La strada è lunga, costellata di difficoltà, ma ogni calcio dell'Albino United fc rappresenta un passo avanti; ogni gol un lampo nella notte.

Una rete che si gonfia, una mente che si libera, l'oscurità che s'illumina.
Dale Albino United!



















mercoledì 7 ottobre 2015

DOVE SIETE FINITI, SCARPINI NERI?

di Gianmarco Pacione (pe seguirci su fb clicca qui)

Boot room dell'Arsenal, Higbury, 1955

Sono passato dal solito campo di periferia, qualche ciuffo d'erba spuntava dal granitico terriccio ambrato. Adolescenti senza regole ondeggiavano a suon di stop sbagliati e sgroppate scomposte: tutti, e dico tutti, sfoggiavano scarpe coloratissime. Allora sì, un po' tra lo stizzito ed il nostalgico mi sono chiesto: "ma che fine hanno fatto gli scarpini neri?".

Alan Ball al Charity Shield
Computer acceso, viaggio nel tempo. 

8 agosto 1970, il Charity Shield tra Everton e Chelsea vede sgommare sul prato verde le prime scarpe bianche della storia: sono quelle di Alan Ball, stella della mitica nazionale inglese del '66.
A griffarle, sorprendentemente, è la Hummel: brand quasi sconosciuto nel Regno Unito. La geniale trovata del marchio tedesco risalta su tutte le televisioni del Paese e la Hummel, (in)capace l'anno precedente di vendere la pochezza di 5mila paia di scarpini, finisce per vederne prenotate 12mila solo la seguente mattinata
Cifre da record, maturate grazie ad un leggendario espediente: "Non avevamo scarpe che andassero bene ad Alan -hanno rivelato poi i sorridenti vertici dell'azienda-, per questo abbiamo preso le Adidas che usava per giocare normalmente: Dio solo sa per quanto tempo le abbiamo pitturate di bianco. Una volta finito abbiamo aggiunto il nostro marchio, lavorando ore ed ore per camuffarlo alla perfezione. Le scarpe, poi, sono arrivate in treno ad Alan pochissimi minuti prima del fischio d'inizio". 


L'apparente svolta epocale sembra così assumere i tratti dell'epidemia. 
Molti altri cavalcano la moda delle scarpe all white nei "nevosi" anni '70, tra questi spiccano due scozzesi: Willie Morgan (Man Utd) ed il folletto Jimmy "Jinky" Johnstone (Celtic). 
Le scarpe rosse di George

Più complessa invece la situazione di Alan Hinton, all'epoca titolare del miracoloso Derby County di Brian Clough. "Appena raggiunto il faraonico accordo con la Hummel ho pensato che Clough mi avrebbe crocifisso, era normale aspettarselo, lui odiava quel tipo di cazzate. Poco prima mi aveva obbligato a tagliare tutti i capelli: sosteneva assomigliassi ad una donna". Clough sorprendentemente non vieta la novità ad Hinton; si sforza di chiudere un occhio, con ogni probabilità a causa del rapporto speciale che lega i due: "Fuori dal campo -spiegava Hinton ai tabloid di quei tempi- dirigo la distribuzione di capi d'abbigliamento. Il mister è un patito dei pullover che tratto, probabilmente è per questo che ogni tanto mi concede degli strappi alle regole". 

Dal bianco al rosso, dai Rams ai Gunners: è Charlie George il pioniere delle fiamme ai piedi, allacciate in tutta la loro arrogante focosità nella finale FA Cup del 1972. 

Come un breve ma intenso movimento artistico, però, le scarpe colorate toccano la vetta più alta di popolarità per poi rotolare nell'oblio. Perdono fascino stagione dopo stagione, finendo nel dimenticatoio lungo tutta la durata dei bui anni '80 e trascinando nel baratro la Hummel stessa. Un'epurazione conservatrice durata una sola decade: elegante ritorno a quelle origini dipinte dal semplice nero o, al massimo, dal rispettoso marrone. 

Ma i baldanzosi anni '90, quelli degli eccessi, sono alle porte; si fiondano sui campi nuove icone del football cromaticamente sfacciato: su tutti Marco Simone e Martin Keown, principali esponenti della seconda generazione di futbolisti colorati. 
La giostra multicolor riparte vorticosa e non si ferma più.

Sekerlioglou e le sue scarpe
Le origini dei primi scarpini luminosi, tuttavia, hanno l'intenso profumo d'una fiaba misteriosa. Serve difatti un imponente lavoro filologico per scovare l'articolo del Sunday Times, scritto nell'ormai lontano Novembre 1996.
Archie MacGregor, inviato nella foschia di Dundee, appunta: "Quando Attila Sekerlioglou, centrocampista del St Johnstone, ha deciso di fare a meno delle sue notorie scarpe gialle fluorescenti, è sembrato ovvio che il pomeriggio sarebbe stato cupo". 
Di Sekerlioglou si sa ben poco: austriaco d'origini turche, per molti anni cardine dell'Austria Vienna e, oggi, scout del Bayern Monaco. Il resto è materiale per cultori ed indovini. 

Computer spento, ritorno al presente. 

Penso ai ragazzini con le scarpe colorate e me li immagino sul divano, domenica scorsa, assorti nella crudele mattanza di Milan-Napoli: a San Siro nessun giocatore calzava scarpe completamente nere. Nessuno, portieri compresi. 
L'ultimo Mondiale solo 12 giocatori su 352 hanno deciso di non colorarsi arlecchinamente i piedi. 

Una tendenza inarrestabile, aiutata dall'alta definizione e dal divismo mediatico. 

C'è chi, da feticista dell'ultima ora, conosce ogni modello a memoria: nome, materiale, cuciture; c'è chi rimpiange la Pantofola D'Oro e continua, ostinatamente, a cercarla in tutti i negozi della sua città; c'è chi sta nel mezzo e semplicemente se ne frega, "tanto, basta che abbiano i tacchetti". 

Bale con delle innovative Adidas
Personalmente rimpiango i tempi in cui le scarpe definivano un giocatore, lo facevano insultare dal pubblico a suon di "checca, che cos'hai ai piedi?!"; tempi in cui Dinho era il solo Re Mida a colare oro sulla sfera; tempi che ci hanno condotti all'inevitabile e disperata "originalità seriale" del giorno d'oggi: dove tutti, per distinguersi, si ritrovano ad essere uguali agli altri. 

Una riflessione senza santi o imputati, senza proposte o soluzioni, forse completamente fine a sé stessa. 

In fondo, guardando dei ragazzi giocare sul solito campo di periferia, la mente può fare strani viaggi e pretendere di rendere filosofico un mondo incorniciato da battimani e gol.

Per cui comprate le scarpe che volete, giovani futbolisti, ma prima fatemi un piacere: imparate a stoppare quel dannato pallone.
Questo potete farlo anche a piedi nudi, non vi preoccupate.