mercoledì 19 agosto 2015

INCUBI E DEMONI D'UN TULIPANO: MEMPHIS DEPAY

di Gianmarco Pacione (per seguirci su fb clicca qui)

"DREAM CHASER" tatuato sul petto: il "cacciatore di sogni".

Yard dopo yard, metro dopo metro. Memphis Depay pare un running-back catapultato ai bordi dell’Old Trafford: sommerso da bicipiti scoppiettanti, spinto in ogni breve cambio direzionale da gambe che straripano. Una potenza muscolare da football a stelle e strisce (quello con il pallone ovale ed i caschi, tanto per intenderci), evidenziata dalle scorrerie palla al piede: passo breve, passo breve, esplosione ed allungo, fuga, touchdown, bazooka, rete. 

Un legame, quello di Depay con l’universo sportivo americano, che non si limita alle caratteristiche fisiche: il background del talento olandese ricalca difatti le sinistre storie adolescenziali di tanti, tantissimi atleti statunitensi. 

Memphis Depay in maglia United
“Vorrei che tutti mi chiamassero Memphis, semplicemente Memphis.” 

La scritta sulla maglia è chiara: “MEMPHIS”, nient’altro che il nome. Non si tratta d’un classico, gioioso epiteto di scuola brasiliana, tantomeno d’un vezzo estetico. Il motivo è ben diverso. Memphis rigetta morbosamente il suo cognome da oltre 15 anni: da quando Dennis, il padre naturale, ghanese itinerante, ha abbandonato figlio e moglie (olandese pura) nelle profonde viscere della periferia di Moordrecht. 

“Quella persona non merita che il suo cognome stia qui, sulle mie spalle.”

Memphis, ad appena 4 anni, vede la madre accasarsi con un altro uomo: un patrigno ai limiti della leggenda (dicono “vanti” la cifra record di 15 figli). Memphis coltiva rabbia e tensione adolescenziale, disperso in un fatiscente palazzo-alveare tra liti furibonde e violenze domestiche. 

Memphis e sua madre oggi
“Non voglio descrivere ciò che è successo dentro quella casa, non voglio che la gente sia dispiaciuta per me. A quei tempi ho dovuto semplicemente sopravvivere; potrei parlare di abusi fisici, ma non lo farò.”

Passa poco tempo ed anche il patrigno saluta Memphis senza voltarsi: pare abbia vinto qualche milione alla lotteria olandese (poteva inventarsi qualcosa di più originale, direte voi). Memphis, privato ancora d’una figura maschile, si rifugia tra le braccia di nonno Kees, che per primo lo spinge verso il voetbol. Ma la ruota non gira, anzi, gira sempre più al contrario: i tentacoli della periferia sembrano incontrollabili. 

“Ho fatto cose che non si dovrebbero mai fare, credevo fosse tutto uno scherzo, ma era molto di più. Ad un certo punto ho iniziato a riflettere, pensavo: se mi arrestano con il calcio è finita.

Allo Sparta Rotterdam scorna con diversi allenatori giovanili, corre furente in spogliatoio dopo una sostituzione di troppo, manda a quel paese per ogni piccola incomprensione: il ragazzo è ribelle, è maleducato, lo pensano tutti. Le seconde possibilità diventano terze, quarte, quinte…Memphis è insostenibile, la dirigenza vorrebbe allontanarlo. 

Origlia alla porta il PSV e ne approfitta immediatamente: quelle sgasate palla al piede sono ipnotici assoli muscolari, sono Robben nel corpo d’un rottweiler, sono il futuro della società di Eindhoven.    

Il calcio ad Eindhoven come il football a Dallas, come il basket a Los Angeles, come il baseball a Saint Louis: via d’uscita purificatrice, appiglio per abbandonare e demolire qualsiasi influenza del ghetto. 

Memphis pensa alla pelota, solo alla pelota, aiutato da un mentore personale e da una famiglia locale che lo adotta completamente. Grazie a loro, nel 2009, riesce anche a superare la morte dell’amato nonno. 

Depay e Van Gaal
Yard dopo yard, metro dopo metro, Memphis raggiunge la prima squadra con la stessa rapidità d’un running-back, schivando placcaggi e tackle, mettendo la freccia nell’Eredivisie fino all’arancio intenso della camiseta nazionale. In Louis Van Gaal trova il padre che ha sempre desiderato, un mister fiducioso, innamorato. Il vulcano Memphis erutta nel mondiale brasiliano, appena ventenne, per poi attraversare la Manica proprio insieme a Van Gaal, unendosi quest’estate ai Diavoli Rossi. 

Dei suoi drammi adolescenziali, oggi, oltre al nome sulla maglia sono rimasti altri segni visibili: i tatuaggi, copiosa flora d’inchiostro sparsa per tutto il corpo, tra cui spiccano devote iscrizioni in onore del nonno; l’odio per il padre, con cui non vuole addolcire i rapporti; i pochi amici

“Un tempo andavo in giro per le discoteche con tantissimi amici o presunti tali. La mia “barca” era piena di gente che non apprezzava piccoli gesti, dava tutto per scontato. Quelli non erano veri amici. Oggi la “barca” è più leggera, naviga tranquilla.” 

Memphis ha completato la maturazione spalla a spalla con Van Gaal, a Manchester ha un life coach personale, pronto ad intervenire per esorcizzare i demoni del passato; si rilassa a casa con il cane e gioca a poker con pochi fidati, vergognandosi d’un video rap girato qualche tempo addietro: la quiete dopo la tempesta, verrebbe da dire. 

Lontano, però, si sentono ancora dei tuoni, rimbombano nel nuvoloso sottofondo. 
Toccano note cupe, impossibili da zittire. 

Alla BBC è arrivata una richiesta, firmata Memphis, appena dopo la partita di mercoledì: “Vi pregherei di chiamarmi Memphis, semplicemente Memphis. Grazie.”

In fondo non esiste modo per cancellare il passato. 


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