venerdì 16 agosto 2013

Figli del mare, figli di Tuvalu: PENISULA e SEKIFU


 di Gianmarco Pacione (per seguirci su Facebook clicca qui)
Funafuti: l'atollo più grande di Tuvalu. In basso a sinistra l'unico campo da calcio della nazione.

Puntuale, rituale. Tokotasi sta gesticolando scenograficamente, sommerso da barba e occhi puerili. Ha abbandonato “Tofaga”, la sua stanca barca, da una trentina di passi sabbiosi, solo per accorrere a quella predica, la sua predica, ormai conosciuta da ogni singolo abitante dell’arcipelago di Tuvalu.

Partita dopo partita, pesce dopo pesce, bambino dopo bambino, la leggenda non muta, esce dalle sue labbra come un soffio dalle conchiglie, accompagnata da note ondose, dalle turbolenti  maglie azzurre della nazionale che si riscaldano a poche file legnose di distanza.

La zona centrale della gradinata
“Un tempo, quando gli abitanti dei nove atolli potevano sfiorarsi da una spiaggia all’altra, vi fu un ragazzo, Malakai. Coltivava delle piante di cocco poco lontano da qui. Una mattina Malakai trovò delle piante completamente tagliate, derubate dei loro frutti. Poche settimane dopo il furto si ripeté. Accadde poi una terza volta. Allora Malakai pensò per ore guardando le sue piante e si accorse come il ladro lo colpisse solo nelle notti di luna piena. Così il giovane attese sveglio e nascosto per notti e notti, fino a quando non giunse il colmo chiarore successivo. Iniziò a sentire voci di uomini e donne, poi il fruscio dei rami colpiti. Allora sparò, facendo fuggire i ladri, rincorrendoli nella spiaggia. Riuscì a raggiungere una giovane ragazza, la strinse a sé, ma proprio in quell’istante gli altri si tuffarono in mare, trasformandosi in delfini. Malakai portò la donna al villaggio e la sposò, donandole due figli. Poi, una sera, la giovane disse addio ai due figli ed al marito, si gettò in acqua e tornò ad essere un delfino. I suoi due figli diventarono i due pescatori ed i due calciatori migliori della nazione. Eccoli lì – urla Tokotasi, indicante tra la folla meravigliata – Penisula e Sekifu, gli eroi di Tuvalu.”.

Scricchiola la gradinata, piccolo centro d’una storia che mai è stata e mai sarà scritta. Non è gremita. I pochi presenti si allontanano da Tokotasi con il calcio d’inizio in vista; hanno l’aria di giovani confessati in attesa della comunione.

Uno scorcio di Tuvalu-Tahiti
L’anziano cantastorie osserva compiaciuto, arriccia la barba. Le nuvole hanno sostituito le sue parole, ora sono loro a danzare sulle instancabili note ondose. Lo fanno insieme alle undici maglie azzurre impegnate contro la Nuova Caledonia.

Il fischio d’inizio. Tokotasi è consapevole, per un lunghissimo istante, d’essere inconsapevole.

Inconsapevole d’appartenere alla seconda nazione meno popolata della Terra, con solo 9929 abitanti. Inconsapevole d’essere in uno stadio dalle dimensioni irrisorie: il Tuvalu Sports Ground, capace d’ospitare 1500 spettatori in un unico settore dal sapore esotico.

Contorno di piante, erba, mare, di gustose pennellate di Gauguin; non potrebbe essere differente per l’unico campo di calcio regolare presente in questo Stato. Unico. Troppo fini le lingue di terra dei nove atolli, troppo forte la stretta dell’oceano Pacifico per ospitare più d’un conforme prato verde.

La partita è bloccata, o meglio, la partita è inguardabile. Una sorta di sfida alle massime vette dell’orrendo, talmente inesplorate dal risultare, per certi inspiegabili versi, affascinanti. Palloni che viaggiano morbidi come pietre in un flipper. Palloni che si perdono oltre la collina, tra la sabbia dorata. Palloni stuprati, maltrattati.

Maukobe Penisula
Tokotasi sfrega le mani in una tasca, le unisce coprendo un amuleto. È in legno, come quasi tutto qui. È  intagliato a forma di delfino.

La chiusura difensiva di Penisula, signorile, fuori luogo. Il suo coast-to-coast senza il minimo controllo, la palla dentro per l’inserimento di Sekifu dalla mediana, a bucare i centrali Caledoniani.

“Guarda i tuoi figli!”, Tokotasi alza l’amuleto. La rete si gonfia, pare segua il movimento degli alberi di cocco mossi dal vento.

La gioia. Tokotasi come Bruce nella Kop, come Marco della Fiesole, come Paul nella muraglia gialla.

Le urla. Trasportate dal vento in ogni casa, in ogni isola dell’arcipelago, in ogni barca di questi 26 chilometri quadrati.

Il cuore che si riempie della signora Kalea, intenta a pulire il pesce. Ora sa che suo nipote sta vincendo. Le espressioni interrogative di turisti avventurosi, fermi davanti ad un aereo giapponese abbattuto durante la seconda guerra mondiale, maggior attrazione dell'entroterra di questo paradiso sperduto tra Hawaii e Australia. Il volto di Uota che si gira alla ricerca dello Sports Ground. Sta cavalcando l’azzurra “Tofaga” del padre, confondendosi con tutto ciò che lo guarda dall’alto e dal basso. Kolone ed Etimone che continuano a rincorrersi, non curanti del boato, ai margini della pista dell’aereoporto di Vaiaku, villaggio più importante di Tuvalu. Lo sanno i due bambini, oggi non arriveranno aerei, arrivano solo tre giorni a settimana quei mostri del cielo qui.

Viliamu Sekifu
Si abbracciano i due fratelli del mare, lo fanno a lungo vicino alla bandierina. Penisula è stato il primo a lasciare il suo Paese cercando fortuna, come calciatore professionista, nelle Fiji. Per adesso è ancora il solo ad averla trovata.

Sekifu ha tagliato un altro traguardo storico, gonfiando la rete contro Tahiti nel 2007. Facendolo per la prima volta, nella sua patria, in una partita valida come qualificazione al Mondiale.

Il fischio arriva, di nuovo. Questa volta bussa tre volte alle orecchie tuvaluane. 1-0 alla Nuova Caledonia. Sekifu e Penisula si abbracciano, si stringono forte l’un l’altro, di nuovo. Tokotasi si asciuga le lacrime con le mani ancora chiuse, a protezione del suo sacro amuleto. I due figli di Malakai lì, davanti a lui. Ancora un brivido, un istante, questa volta di cruda consapevolezza. Le orecchie ora ascoltano un frastuono, non è più un melodico accompagnamento. Sta avanzando l’oceano, come sempre, inarrestabile.

“Dicono che manchi poco, saremo sommersi tutti. D’altronde viviamo in terre che si alzano, al massimo, poco più di quattro metri sopra il livello del mare. Cambiamento climatico, surriscaldamento. Non capisco, l’oceano un tempo ci abbracciava, sembrava uguale a Sekifu e Penisula. Ora ci sta stritolando. Ci mancano il respiro, il futuro”.

Tokotasi osserva il mare a destra, a sinistra, ovunque l’orizzonte è azzurro. Come Malakai capisce chi è il ladro, capisce chi, ogni giorno, gli sottrae un lembo di terra, un lembo d’anima.

Tre delfini nelle acque Tuvaluane
Il vecchio pescatore alza improvvisamente il suo tesoro, lo tiene saldo, radicato nelle sue braccia nodose ma fiere. Che lo stritoli pure l’oceano, che sommerga la sua casa, che distrugga la sua “Tofaga”, che inondi il Tuvalu Sports Ground. Che gli neghi pure la patria, l’identità.

Sekifu e Penisula si voltano verso la gradinata, uno sotto il braccio dell’altro. Incrociano volutamente lo sguardo con Tokotasi, poi lo spostano, religiosi, verso l’intagliato legno mistico. Cinque, dieci, trenta secondi. Gli occhi di due figli che omaggiano la propria genitrice. Poi eccoli tornare a Tokotasi. Un cenno, un gesto con il capo quasi impercettibile. Avanti e indietro. Innegabile affermazione.

L’asceta narratore di leggende nuoterà con loro. Lo farà la prossima notte di luna piena, lo farà per sempre, anche con la sua amata Tuvalu completamente soffocata dall’oceano. Cavalcherà le onde sul dorso di Sekifu e Penisula, stringendo forte tra le mani la loro madre, proprio come fece il giovane Malakai quando ancora gli abitanti degli atolli potevano sfiorarsi da una spiaggia all’altra.    
La gradinata del campo di Funafuti

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