giovedì 25 aprile 2013

"LOCO", STANZA NUMERO 1(3). SEBASTIAN ABREU

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la cavadinha del "loco" Abreu contro il Ghana
Mi lascio alle spalle la Señora boliviana per eccellenza. La route 1 trascina lontano me e lo scassato taxi che Samuel cavalca, quasi in balia d’un fiume e della sua corrente. Abbandono la “città tra le nuvole” per riportarmi tra gli uomini, tra i più sinceri di essi. Uno psichedelico susseguirsi di colori e forme è l’ideale preludio alla mia meta finale. 

iglesia di Laja
Alzo lo sguardo, “Laja, prefectura del departamento de La Paz”, sgualcito cartello, totem solitario di modernità, snobbato dalle svogliate mucche, dagli antichi monti. “Mira aqui, a la derecha”. Samuel mostra, orgoglioso, l’iglesia di La Paz. Solo pietre a comporla, solo pietre ad innalzarla. Uno spettacolo di migliaia di anni, una dichiarazione di grandezza umana. Ma non è per questo che sono qui. A pochi metri un caseggiato, segnato dalle intemperie e da una manutenzione rivedibile, recita “Manicomio de Laja”. È nascosto da alberi mai potati, come un bambino che si copre con le mani il volto, pieno di vergogna, di paura. “Si fermi Samuel, sono arrivato.”.


el "loco" Marcelo Bielsa
Il pesante cancello si apre, mi viene incontro un dottore, almeno credo visto il camice bianco. “Salve, sono il dottor Marcelo Bielsa.”. Cognome che già ho sentito più e più volte. Scruto meglio. Ha ricamato sul cuore lo stemma dell’Athletic Club de Bilbao. Si, è proprio lui. “Cosa l’ha spinta dall’Italia a venire fino qui?”, chiede stupito lasciandosi cadere gli occhiali, tenuti da una cordicella, sul petto. “Sono venuto a scoprire la pazzia nel futb...”. Inizia a fare ampi gesti Bielsa, verso il nulla, capisco il perché. “Avanti mister Bielsa, cosa sta facendo? È l’ora della pastiglia non importuni il nostro ospite con tattiche che non può capire.” Esordisce così il vero medico e capo della clinica. “Scusa italiano, sai com’è, qui sono tutti un po’ LOCOS”. Annuisco, passo le mani sudate sulla superficie dei jeans, sto per entrare nell’unico campo di calcio dove la follia regna sovrana.

Passano pochi istanti e sono già davanti alla prima stanza. “Vedi italiano, abbiamo deciso di raggruppare tutti i locos del calcio sudamericano qui, per studiarli meglio, per capire cosa li distingua dagli altri, cosa li renda così particolari.”. Fingo d’ascoltare, in realtà sono già totalmente proiettato a quelle quattro mura delimitate da una grande porta bianca. “Vorrei sapere qualcosa in più sui suoi pazienti dottor Escobar, se possibile.”. “Certo italiano, vieni, iniziamo dal primo, qui si divertirà sicuramente.”. Mi porge una cartellina, sono tracciati tutti i particolari, m’immergo nella lettura dirigendo l’occhio nell'unico quadretto scuro che mi permette d’osservare quell’uomo, quel giocatore, quel LOCO.

el "loco" Abreu
Mi accorgo subito di un particolare. La camera è contrassegnata con il numero “13”. La seconda cifra però, è stata aggiunta a penna, una marea di linee sovrapposte, quasi febbrilmente. Indago l’interno. Una figura alta, imponente. Contornata da capelli quasi infiniti, pronti a cadere sulle spalle in ogni istante. Mi guarda, sorride. Un sorriso di rara intensità, un sorriso che entra nel cuore. Naso aquilino, sopracciglia foltissime. Se non fosse per quella smisurata stazza potrei tranquillamente associarlo ad un andino qualunque, un pastore, un musicante. Attorno a lui è rimasto solo qualche lembo bianco. L’intera stanza è dipinta da cifre, simboli. Le prime sono sempre uguali: l’1 e il 3. I secondi variano continuamente colori, forme, dimensioni. Le righe scritte da Escobar mi aiutano. Washington Sebastian Abreu Gallo. Per tutti “el loco” Abreu.

un giovanissimo Abreu
Descrizione sommaria: trentaseienne attaccante di Minas, Uruguay. “Poteva sforzarsi di più dottore”, penso tra me e me. Abreu è sempre fermo, braccia conserte, al centro della stanza. mi guarda e ride, continuamente. Lentamente riconduco i pezzi del puzzle al loro posto. Defensor, San Lorenzo, Deportivo la Coruña, Gremio, Tecos, San Lorenzo, Nacional, Cruz Azul, America, Sinaloa, Monterrey, San Luis, Tigres, River Plate, Beitar Jerusalem, Real Sociedad, Aris, Botafogo, Figueirense. Diciannove stemmi, diciannove maglie vestite. Un pellegrino alla costante ricerca della miglior rete da gonfiare. Un viaggio attorno a tutto il mondo, inseguendo sempre società di grandi tradizioni, d’enorme calore e tifo. Popoli interi innamorati del loco uruguagio.

Abreu e Zagallo
In alto a destra ecco proprio la bacheca contenente tutte le sue maglie ed ecco svelata la sua più grande ossessione. 13, 13, 13, 13. Mi volto dubbioso, Escobar annuisce. Tutte le camisete vestite dal nativo di Minas ospitano queste due cifre in un modo maniacale. Ma perché il 13? Mi anticipa il dottore: “ha iniziato ad usarlo da giovanissimo, in onore di Fabian O’Neill, te lo ricorderai di sicuro italiano.”. Certo, come non ricordarsi del tondo mago. Cagliari, Juventus e Perugia. Tanta, troppa classe. Tanta, troppa fame. Un loco a modo suo. “In comune hanno la completa mancanza di rispetto verso la superstizione. Incredibile anche solo da pensare qui in Sudamerica. Tutto è legato al soprannaturale, a qualcosa che non dipende da noi. Bisogna essere proprio folli per non credere a certe cose.”. Per terra, gettate, disprezzate, giacciono tre maglie. Anni bui, distanti dai suoi due numeri preferiti. Occupati, negati. Sta di fatto che il 31 in maglia Depor, il 17 usato nell’America e il 113 (si, il 113), vestito al debutto in maglia Nacional, altro non sono che richiami a se stesso, alla propria pazzia, alla propria scelta. Bacheca a parte è riservata alle strisce bianconere del fogao. “Continua a ripetere che la più grande emozione della sua vita è stata la consegna della maglia numero 13 del Botafogo, proprio a fianco del più grande numero 13 brasiliano della storia: Zagallo.”, guardo ancora quelle braccia conserte. “Lo direi anch’io se fossi al posto di Sebastian”.

in maglia San Lorenzo
“Ah, senti qui”. Il medico alza lo sportellino ai piedi della finestrella. Ne esce un boato, una musica festosa, irrequieta e sgargiante. “Dimmi italiano, ti ricordi il rigore che calciò contro il Ghana ai mondiali in Sud Africa? Quello con lo scavetto, il tocco sotto? Ecco, Abreu non viene chiamato “loco” per quello. Questa è la cumbia, ballo colombiano tradizionale. Il paziente era solito arrivare a tutti gli allenamenti, tutti, con questi ritmi al massimo volume; nel ’96 i suoi compagni del San Lorenzo lo definirono “pazzo” proprio per questa usanza.”. 

Investito da dei ritmi solari resto come imbambolato per qualche istante.
Poi ripenso a quel quarto di finale, alla mano di Suarez, all’invenzione di Abreu. Con una nazione sulle spalle, con il mondo ad osservarlo. Tre passi, il mancino che accarezza dal basso la pelota. Movimento consueto, ormai diventato il suo marchio di fabbrica. Il portiere già disteso da tempo, la palla che dolcemente allarga le stringhe della rete. I compagni che lo abbracciano in un’ondata di gioia e braccia alzate, urlando “LOCOOO!”.

Abreu con le nonne
Sul comodino delle foto della sua famiglia. Nonni, genitori, moglie, figli. “Incredibile quanto sia attaccato a loro – sottolinea Escobar – pensa che appena può va dai suoi parenti a Minas. Ci passa intere giornate, non è come i giocatori normali, sembra avere più bisogno della tranquillità che della fama.”. Però di notorietà ne ha avuta, e ne ha molta. Basta osservare gli striscioni, le foto di tifosi impazziti per quel condor delle aree di rigore. I trofei vinti in Argentina, Uruguay e Brasile. La Copa America.

“Dai, proseguiamo oltre italiano!”, esorta il dottore toccandomi il braccio. “Aspetti un attimo…e quelle?”. La statua dal viso andino calza due scarpe dal colore differente. Una nera e una bianca, marchiate Asics. “Ah si, quelle sono le scarpe che Abreu ha usato nel derby contro il Flamengo, quando giocava nel Botafogo. Un gesto di protesta, di disprezzo nei confronti del razzismo. Tutto il Brasile era davanti alla televisione, tutti sono stati raggiunti da quel messaggio. Ma che glielo dico a fare, tanto sa già che questo qui non è proprio normale.”. Un calore interiore mi scalda. La stima smisurata.

“Posso entrare nella stanza?”. “Come prego?”, ribatte sbigottito il dottore. “Si, voglio entrare, un secondo solo.”. Lucida follia. La punta nata e cresciuta nel Defensor è ancora lì, mi fissa braccia conserte, il sorriso infinito. “Sei tu loco, italiano, non lui! Tieni, però sappi che se ti fai del male non è colpa mia. Più d’una volta Abreu ha preso a pugni qualcuno, in campo o in allenamento. Chiedi a Hugo Vieira per informazioni.”. Matto vero. Che quel sorriso nasconda pugni indimenticabili? Voglio scoprirlo.

La porta cigola, la mia sicurezza anche. Arrivo ad un metro da lui. Ora sono nell’ombra più scura, copre l’unica lampadina con le sue spalle giganti. Osservo uno spettro enorme. Ho paura. Riparte la musica, ecco cosa mancava. La cumbia. Abreu corre verso di me, istintivamente mi proteggo, metto le mani avanti, come se possano servire a qualcosa. Sento due tronchi cingermi le spalle. Un abbraccio. Le sopracciglia folte, il naso aquilino, il sorriso emozionante ed emozionato davanti a me. Estrae dal comodino un pallone. Mi fa un segno generico, riconosciuto però da tutto il mondo, simbolo di passione. Ho capito Loco, quella dietro di me è la porta e adesso batti un rigore. Anni passati in tutte le case del globo a compiere lo stesso gesto. Tra fratelli, tra padri e figli, tra generazioni. Mi abbasso sulle ginocchia, osservo le maglie ordinate, il 13. Mi lascio affascinare dalla cumbia, regalo uno sguardo ai quadretti di famiglia, lo vedo partire. Incrocia sicuramente, calcia alla mia sinistra. Tre passi cadenzati. Mi butto. La palla è in aria, io sono a terra. Tic. Risuona la mia idiozia e con essa la porta socchiusa, baciata dalla pelota. Abreu spalanca le braccia, per la prima volta parla, grida. “GOOOOOOOOOOOL”. Mi rialzo, amareggiato, umiliato. Esco dalla stanza quasi istintivamente, uomo senza dignità. Mi ferma una mano. “Tieni italiano.”. La maglia numero 13 del Botafogo. “Grazie”, mi dice. Non riesco a rispondere, sono bloccato, la porta si chiude. Tonfo del mio cuore.   

Abreu che festeggia goliardicamente
“Le ha fatto la sua cavadiñha eh! Non si preoccupi, l’abbiamo subita tutti, è imparabile.”. mi allontano dalla stanza numero 1, o 13. A pervadermi però sono attimi di gioia, di felicità. Ripenso al Loco Abreu, ripenso alle caratteristiche della sua pazzia. Un limite estremo, certo, quello dell’eccessiva allegria regalata dalla palla e dal prato verde. Quello di chi non si concede a stupide dispute mondane, quello di chi fa innamorare migliaia di persone senza chiedere nulla in cambio. Quello di chi ama la propria famiglia quanto il futbol. Quello di chi sorride alla superstizione. L’estremo della passione, l’estremo della personalità, l’estremo di Washington Sebastian Abreu Gallo.Sorrido.

A pochi metri la stanza numero 2, ancora alticcio d’emozioni avanzo ciondolante. Chissà chi mi attende, chissà che uomo, chissà che calciatore, chissà che LOCO.
  

 Gianmarco Pacione

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