martedì 26 marzo 2013

LA LEGGENDA DEI DUE RE. PALANCA E COZZA.



striscione esposto dai ragazzi della curva ovest per il loro beniamino

“Lupi, lupi, lupi!”. Il boato del San Vito sparge tensione e carica agonistica in tutti i dintorni. “Nù normale e un’ per u’ figghiolu, grazie.”. “Quanti anni ha il bambino?”. “Tredici!” risponde una voce squillante. “Tredici ha detto. Mo’ dacc’ il biglietto ca inizia.” Francesco prende il biglietto dalle mani del padre. Intorno a loro il sole splende senza sosta. Novembre ’86. Tutto è dipinto di rossoblu. Posto 37, settore F, distinti. Coordinate onnipotenti, acquolina che cresce. Posto occupato. Un ragazzo a petto nudo, coperto solo da una sciarpa di lana pesantissima. Gli opposti della passione. Su di essa capeggia la scritta “Alè Cosenza”. “Ja Ciccio, mettiamoci qua.”. Francesco viene cinto dalle braccia dal padre proprio al momento dell’ingresso delle squadre in campo. “Signor Cozza! Che ci fa qui?”. “Salve Vincè. Ho accompagnato Ciccio…e poi ci sta lu derby”.
l'Us Catanzaro 86-87

Clima rovente, ritmi latini. Francesco ha studiato per tutta la settimana quelle due formazioni, ha controllato ogni volto, ogni caratteristica. È “solo” una partita di serie C. “Solo” per chi finge di non capire. La prima frazione scorre incorniciata dall’unilaterale tensione. Da un’attesa irrazionale. All’8’ Tavola appoggia in spaccata e fa passare i bianco vestiti catanzaresi. Gioisce per tutte le aquile non presenti, obbligate a non librarsi in volo verso il suolo nemico. Voce fuori dal coro ai piedi di venticinquemila bruzi senza sorriso. San Vito mesto, placidamente ammutolito. Al 19’ Mirabelli rianima la marea cosentina con un preciso colpo di testa. Poi l’intervallo. Manca qualcosa.

Massimo Palanca
“Papà, papà!”. “Dimmi Ciccio.” Tutto l’entusiasmo di un piccolo tredicenne è condensato su una particolare figura. Ne conosce l’identità, le caratteristiche. Ne è misticamente attratto. “Ma lo vedi il 15? Quello che sta per entrare in campo? È Massimo Palanca. Guarda, è vero che ha il baffo grandissimo e i piedi piccolissimi.”  
Nello stesso istante, a distanza di un lancio lungo, la leggenda giallorossa muove la ricciola chioma e con essa i due puntini neri all’estremità del suo corpo. Una piccola scritta dorata su di loro. È la Pantofola d’Oro a marchiarli. Quel 37 fatto su misura che lo abbraccia da una vita. Dalle partitelle dietro casa a Loreto. Dai duri esordi nella ruvida serie D con la maglia del Camerino. Dall’esplosione nel Frosinone. Dal primo gol in maglia catanzarese. A distanza di una trasmissione radiofonica, per il suo popolo, è pura estasi. Per Francesco anche. Eccitazione crescente, gonfiata a dismisura. Come da copione, la più regale delle aquile, segna. Decide.

“Hai visto Ciccio? Neppure l’ha sporcat’ u’ sinistru.”. Il tabellone segna 1-3. Palanca, Palanca. Minuti 65’ e 68’. Una mirabolante incornata, un destro al volo. Derby finito in concomitanza con il suo ingresso in campo. Una marcia funerea, galleria di smorfie e lacrime, accompagna Francesco e suo papà alla Fiorino di famiglia. “Ja ci pijamo nu panino pe strada Ci’!”. Si chiudono le portiere, ma la magia non sparisce nella testa del ragazzino. L’unico rammarico di non aver visto qualche saetta uscire da quel mancino.

La Fiorino arranca, arriva al traguardo finale borbottando. “Bar Mascione”. Solito rituale. Panino con mortadella e chiacchierata religiosa tra lupi rossoblu. “Do’ sta Ciccio?”. Francesco è immobilizzato. Osserva l’enorme pullman bianco davanti a lui. Sulla fiancata una scritta incantata. “US Catanzaro”. Sono lì, al ristorante “Amalfi”. Proprio loro. A distanza di tre polverosi metri. Gli antieroi coperti di bianco, scappati a braccia alte, senza voltarsi, dal San Vito in lutto.

Francesco osserva. L’Eden rappresentato da un insieme di placche e ruote. Un colpo di tosse. Non è suo.  Gira attorno allo specchietto senza toccarlo. Butta lo sguardo. Il baffo. Foltissimo. I piedi, coperti dalla parte inferiore della tuta. Quasi a proteggerli. È lui; sbuffa fumando una sigaretta. È solo.

“Pa-Pa-Palanca?”. Spunta un volto giovanissimo e pallido dalla fiancata del bus. “Si, dimmi pure ragazzino.”. Segreto preziosissimo. Visione prodigiosa. “Sa, ero allo stadio.”. “Lo immagino, praticamente tutta Cosenza era lì ad urlarci contro.”. Pausa imbarazzata. L’idolo di mille fantasie non ha capito. “Io veramente non tifo Cosenza.”. “E mi vuoi dire che sei di qui ma tifi Catanzaro?”. “No, no. Amo semplicemente il calcio. Mi piace vederlo, giocarlo. Sa, il mio allenatore mi dice sempre di calciare le punizioni come lei…ma io sono destro.”. “L’importante è calciarle forte e segnare.”. Ricordi che tornano a galla. Dura verità. Massimo Palanca, la leggenda, è riservato, proprio come aveva letto Francesco. Forse ancora di più. Non si specchia nel suo passato, nel suo presente, nei suoi 170 centimetri d’istinto e classe. La boria è distante anni luce da quel sorriso cammuffato.

4 marzo '79. La tripletta di Palanca
“Quando ascolto le vostre partite alla radio sento sempre un coro che fa “Massimè pari na molla”. Ma cosa vuol dire?”. “Semplice, perché sono piccolo quasi quanto i miei piedi. Li vedi? Quindi devo correre, scattare, anticipare. Altrimenti come faccio a fare gol? Il coro è nato dopo la mia tripletta con la Roma, all’Olimpico. Vincemmo 1-3, proprio come oggi.”. “Ma la famosa partita dove segnò da calcio d’angolo?”. “Bravo bambino, vedo che ne sai di cose.”.

Francesco è orgoglioso. Si sistema il ciuffo. Gratta di riflesso una ferita sulla gamba. Si sofferma sul baffo. “Certo, ho anche un suo poster in camera. Sta calciando dalla bandierina e dietro di lei, nella curva, c’è uno striscione che dice “SOLO UN MITO POTEVA SUPERARE LA LEGGENDA, SOLO TU, O’REY, IMPERATORE DELLA OVEST”. L’osservo ogni sera, prima di addormentarmi. E di fianco c’è scritto che ha fatto 13 gol direttamente da calcio d’angolo. 13!”.


Palanca e Rivera. 29 aprile 1979. Da magliarossonera.it
Colpo andato a segno. L’eterno capitano delle aquile lancia la sigaretta a terra. La spegne dolcemente. Inarca le spalle. Fissa dritto negli occhi Francesco. Segno di novità. Pensa al Militare giubilante. Tempio affrescato, partita dopo partita, dal suo pittoresco sinistro. Per la prima volta sente qualcosa. Sa che quel bambino è speciale. Parla. “Sai ragazzino. È facile farsi volere bene da un popolo come quello di Catanzaro. Sono solari, colmi di passione. Vivono il calcio come se fosse la loro unica ragione di vita. Mi adottarono più di dieci anni fa, mi accudirono come un figlio. Venivo da un bel campionato in serie C con il Frosinone. Ero stato capocannoniere. Ma sai, la B è tutta un’altra cosa. Lottammo insieme. Io e le aquile sugli spalti. Arrivammo in serie A in due anni. Mi chiamavano “re”. Ero semplicemente loro figlio, loro fratello. Quando me ne andai, dopo 70 gol, sentii un vuoto dentro. Era incolmabile. Vivevo nella parte alta della città. La domenica mattina mi svegliavo, guardavo da una parte e vedevo lo Ionio. Poi mi giravo, ed ecco il Tirreno. Uscivo di casa con il borsone e trovavo i vicini affacciati che mi battevano le mani. Sono piccole cose, che fanno grande il cuore di un uomo. Napoli, Como e Foligno sono stati semplici punti di passaggio. Ho sempre saputo in realtà che sarei tornato dalle tre “V”. L’altro giorno un giornalista mi ha chiesto perché sia tanto innamorato di questa squadra, di questo luogo. Io ho semplicemente risposto che vivo alla giornata, in provincia, lontano mille chilometri dai grandi centri. Ma la sera, quando me ne vado a casa, Catanzaro diventa Parigi, Roma, New York. Sarò un po’ matto ma è così.”.

“Massimè dai che c’è il dolce! Che cazzo fai? Stai parlando con quel bambino da 3 ore!”. Il baffo ruota vorticosamente. Poi si sofferma nuovamente su Francesco. “Scusalo. È il nostro dirigente. Aspetta un attimo.”. Il piccolo Ciccio chiude un bottone della polo. Quello più vicino al mento. Osserva il mistico mancino, il ponderato saggio, salire sul pullman. Riflette su come ogni parola, ogni suo movimento, fosse atto al ricordare la sua città. Al venerare proprio chi lo ha eletto leggenda. Premia chi lo ama. Lo fa con una continua, viscerale, promessa di attaccamento.

“Tieni, ci vuoi anche un autografo?”. La maglia tra le mani. Non è quella della partita appena giocata. È giallorossa. Ha il numero 11. Il suo numero. Quasi a volersi scusare ulteriormente di quello scempio, di quel 15 che non gli apparteneva e che già aveva cancellato con due reti. “Dai, come ti chiami?”. “Francesco, anzi no, meglio Ciccio, tutti mi chiamano così.”. “E il cognome?”. “Cozza, ma perché? Scrive anche quello?”. 

“Certo, perché quando anche tu segnerai su calcio d’angolo in serie A non ti chiameranno Francesco, sarai per tutti Ciccio Cozza. E io sarò il primo a festeggiare per te.”.

Francesco Cozza, ct catanzarese
La luna splende nel cielo terso. È aiutata dalla luce del computer nel difficile compito di schiarire la stanza. Un uomo nella penombra clicca morbosamente il tasto play su due video. Assieme alle dita, alla mano, al braccio, si muove la stretta polo, con il colletto alto. È segnata da uno scudetto ricamato. Un’aquila su sfondo giallorosso. Sulle nere pupille si riflettono chiaramente due calci d’angolo. Due pregevoli soluzioni balistiche. Due gol privi d’interferenze. L’audio è flebile ma distinto. “Incredibile gol di Palanca! Ci ha ormai abituati a queste soluzioni”. E ancora: “Lupatelli è battuto da una fantastica invenzione di Ciccio Cozza. Segna direttamente dalla bandierina con un destro velenosissimo.”. 

il pregiato destro di Ciccio Cozza
La polo si piega, il collo si gira. Dietro la poltrona, appesa al muro, una maglia numero 11, autografata. La mano ritorna sul mouse. Wikipedia. Massimo Palanca: 115 reti in 332 partite con la maglia del Catanzaro. Francesco Cozza: 48 gol in 138 apparizioni con la divisa della Reggina. La testa ruota ancora. Sotto quella maglia a strisce giallorosse ce ne sono un centinaio granata. Spartite equamente tra il numero 10 e il 35. Ad accompagnarle una miriade di fasce da capitano.

Eccola. La stessa sensazione provata vicino a quel pullman, davanti a quei baffi. L’orgoglio, l’ammirazione. Poi il viaggio nei ricordi. Il Granillo. I calci piazzati. I palloni al bacio per Amoruso. La cascata dei Boys dopo la rete gonfiata. Le salvezze, le retrocessioni. L’amore per quella città.  La completa devozione per quei colori, per quella gente. Connessione improbabile e lontana. Convergenze di amori personali e collettivi. Sapori d'interminabilità.

Le dita si muovono ancora, sollevano la cornetta.
“Papà.”. “Uè Ci’, ma lo sai che è tardi?”. “Si, scusa pà, è che non capisco. Abbiamo perso pure oggi, abbiamo preso 4 gol dal Perugia. Qua è tutto un casino. Non riesco ad allenarli. Tutta Catanzaro mi odia. Sono la brutta coppia di Palanca.”. “Ma che dici a Ci’! Ma lo sai chi sei te! A Reggio Calabria non puoi nemmeno camminà pe’ strada da quanto ti amano. Palanca era il re di Catanzaro, tu lo sei di Reggio. E poi, hai appena iniziato a fà l’allenatore. Tieni 39 anni. Stai tranquillo no? Te l’avevo detto di resta’ alla Reggina.”.  
L'esultanza di Cozza sotto la sua curva

 Francesco si alza spostando leggermente la poltrona per non fare rumore. Si affaccia sul balcone scostando la tenda. “A pà. Però Palanca aveva ragione. Sai, proprio mo’ sto vedendo due mari. È bellissimo. Ma mi manca qualcosa”.
“Ecco Ci’. Bravo. Quei due mari che vedi siete te e Palanca. Tante cose vi separano, ma nessuno al mondo potrà oscurare quello che significate. Due modelli. Due bandiere. Due leggende. Voi siete le società per cui avete giocato. I tifosi lo sanno e lo trasmetteranno di generazione in generazione. Il flusso dei ricordi non terminerà. Voi siete la storia di due città.”.

Francesco chiude il bottone della polo rientrando in casa. Dimentica aperto sempre quello più in alto. Un vizio che non ha età. Guarda l’immagine di quel campione riccioluto fissa al centro del pc. L'espressione è identica a quella che l'aveva salutato nel novembre di ventisei anni fa. Si osserva allo specchio. “Sai cosa pa’? Penso che mi farò crescere il baffo. E se mi cacciano a fine anno io torno a Reggio Calabria, mi manca proprio. Quando scappo lì, appena rientro in città, mi pare di essere a Parigi, a Roma, a New York…e ogni volta che mi vedono i vicini mi salutano e mi abbracciano. Penso proprio che Reggio sia la città più bella del mondo. Sarò un po’ matto, ma è proprio così.”.
ed ecco alcuni dei migliori gol di queste leggende: 
 
le migliori reti di Palanca
                                                  e quelli di Ciccio Cozza in maglia granata



(l'articolo in questione è puro frutto della fantasia. non è ispirato ad avvenimenti reali.)
     

Nessun commento:

Posta un commento