venerdì 1 marzo 2013

IL CURIOSO DESTINO DI UN SILENTE CONDOTTIERO: DANIELE CONTI


Lontano dalle avvolgenti pressioni delle grandi città, lontano dalle trafficate metropoli, dal calcio internazionale, dalle coppe il mercoledì. Una storia che si schiude e svolge in un'altra Italia, in terra di Sardegna, dove il tempo sembra scorrere più lento, compassato: un altro ritmo, l'impressione di esser fuori dall'Europa, a metà fra l'America meridionale e qualche altro paradiso tropicale. L'ambiente ideale, la cornice perfetta per dipingere calcio. Poco importa se si è in periferia. Daniele Conti è l'uomo saggio che della bellezza di questa terra si è nutrito, dipingendo con la palla ai piedi, fondendo il calore della terra che rappresenta con la delicatezza delle sue giocate.
La cristallina commistione di grinta, tenacia, classe, potenza. Il luminoso simbolo di una città (e non solo) che dopo oltre tre decadi, dopo lo Scudetto del 1970 e le leggendarie gesta di Gigi Riva, ha ritrovato una guida orgogliosa. Paragonare calcisticamente i due è un gioco pericoloso e privo di senso. Altri ruoli, altri tempi. Camminano entrambi, però, l'uno accanto all'altro, nella storia. I lineamenti duri, squadrati e furiosi di Riva, i lunghi capelli castani di Conti, al cadenzato ritmo dei suoi passi. Leader maturo e generoso, figlio adottivo di una piazza di periferia con una passione infinita per il pallone.
Conti a segno all'Olimpico contro la Roma


Il destino di Daniele sembra essere stato scritto con il glorioso inchiostro delle imprese del padre, Bruno, bandiera della Roma degli anni ottanta e protagonista della straordinaria vittoria italiana ai mondiali di Spagna '82. Daniele si mette in mostra nelle giovanili della squadra giallorossa, assieme al fratello Andrea. Figli di una leggenda che, precoci e talentuosi, sembrano iniziare a farsi spazio in una piazza infuocata, dove l'odio e l'amore corrono su sentieri vicinissimi ma paralleli, senza toccarsi mai. Esordiscono entrambi nel 1996-1997, alla guida della Roma c'è l'argentino Carlos Bianchi. E' una Roma strana, quella. Ci militano giocatori talentuosi, alcuni futuri vincitori del tricolore qualche stagione dopo, ci giocano giovani promettenti e, come sempre, c'è anche chi non è all'altezza. Sostituito Mazzone,  in quella stagione si alternarono Bianchi e Liedholm. Nessun trionfo, nessuna vittoria. Una stagione mediocre, il dodicesimo posto in campionato, solamente il secondo turno in Coppa Italia e il mancato approdo agli ottavi di finale in Coppa Uefa. Annate del genere, si sa, spesso sono occasione per buttare nella mischia giovani promesse che non hanno nulla da perdere ma tutto da guadagnare. Ed ecco che Daniele e Andrea, uniti sotto lo stesso cognome e sotto gli stessi colori, assaggiano la Serie A. Sembrano prologhi ad introduzione di una storia scontata. Il calcio sorprende, straccia copioni meravigliosamente scritti per sostituirli con altri, enigmatici e ruvidi: è quello che accade ad Andrea, prima, e a Daniele poi. Il primo, che gioca da attaccante, viene mandato a Carpi: quello che sembra un arrivederci diventerà un addio vero e proprio. Andrea gira tutta l'Italia, da una serie minore all'altra, senza più accarezzare il sogno di far ritorno a casa. Daniele, invece, può ancora lasciarsi coccolare dall'idea che l'impresa di scrivere, come fece suo padre, la storia della sua città non sia così azzardata. Rimane a Roma altri due anni: dal 1996 al 1999 vedrà il campo solo in cinque occasioni (tre gare di campionato e due di coppa Italia) condendo la fugace avventura giallorossa con un gol, contro il Perugia. Il curioso svolgimento di quella partita vuole che Daniele venga poi espulso per eccesso di esultanza. Come se tutto il suo amore per Roma, tutta la sua dedizione, tutti i suoi sogni si fossero addensati incontrollabili e furiosi in pochi minuti. Una potenziale carriera concentrata fatalmente in un solo giorno. Roma non è nel destino di Daniele. Diventerà leggenda, idolo, esempio, condottiero, ma lontano da Trigoria. Lontano dal padre, lontano dall'Olimpico, lontano da quei colori che sembravano essergli stati cuciti addosso e che, invece, dopo tre anni sembrano esser stati lavati via dalla distanza che lo separa dal gioco. Troppi sono quei metri fra la panchina e l'erba.

Daniele arriva a Cagliari a vent'anni, giovane di belle speranze, e di certo non s'immagina che quella che doveva essere una meta di passaggio diventerà, invece, la sua casa. La sua terra. Di anno in anno, di partita in partita. In mezzo al campo, baricentro e filtro, muro e fiamma. Passa il tempo e Daniele si afferma, conquista tutti, cambiano giocatori, allenatori, fuoriclasse veri o presunti, talenti sfarzosi e maggiormente amati da giornalisti e addetti ai lavori, ma lui rimane. Sempre. Il corpo irrobustito dagli anni e dalle battaglie (perse o vinte, che importa se hai combattuto?), i piedi potenti e docili, a seconda dell'occasione, che sembrano migliorare più le stagioni scorrono via. Come un buon vino. Là fuori il mondo del calcio si affanna a cercare in Africa e America del sud il nuovo talento da copertina, la nuova stella da aggiungere al firmamento dei grandi contratti e dei grandi club. Daniele, intanto, avvolto dal calore di un'isola silenziosa ma orgogliosa e fiera, lavora e suda, il pallone fra i piedi, lo sguardo alto e deciso. La carriera gli riserverà più volte anche il piacere più inconfessabile e, allo stesso tempo, intenso: fare male alla Roma, a quella che doveva essere la sua realtà. Puntuale, contro i giallorossi, Conti non sbaglia, mai. Mosso dal fuoco sacro e terribilmente umano della rivalsa, della vendetta, di chi non manca mai di ricordare a chi non ha creduto nel suo talento che ha lui, Daniele figlio di Bruno, ha saputo rialzarsi e ha fatto del suo esilio sotto il sole sardo l'occasione per creare un regno. Un regno ovattato, senza trionfi e pressioni, il regno di un calcio operaio e, allo stesso tempo, amabilmente romantico ed elegante. Nessun commissario tecnico lo chiamerà a difendere i colori della nazionale italiana, tra le decine di giocatori (veri e presunti) convocati e messi in condizione di indossare la maglia Azzurra il suo nome non comparirà mai. Fuori da tutto: dai copioni idilliaci di un destino beffardo, fuori dalla penisola, fuori da Roma, fuori dal calcio fatto di media e denaro, fuori dal giro della nazionale ma, inesorabilmente e innegabilmente, dentro al cuore di due popoli interi. Quello sardo e quello di chi ama il calcio. Romantico e malinconico, rabbioso e avvincente. 

Gian Maria Campedelli

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