giovedì 10 gennaio 2013

FUNAMBOLISMI CELESTI: ALVARO RECOBA



Alvaro Recoba si presenta all'Italia: doppietta
al Brescia, qui mentre calcia la punizione
che vale la vittoria per 2-1.
31 Agosto 1997. Allo stadio Meazza di Milano esordisce uno dei più straordinari fenomeni del calcio mondiale: Luis Nazàrio De Lima, conosciuto da tutti, proprio tutti, come Ronaldo. Un paese intero attende l'arrivo del nuovo Messia brasiliano: questa, però, non è la storia che voglio raccontare. Il ruolo di protagonista, oggi e quel giorno, passa dai piedi e dalle gesta del ventunenne di Rio de Janeiro alle poetiche vicissitudini di un suo coetaneo, latinoamericano come lui. L'insospettabile protagonista, però, viene dalla terra di Felisberto Hernandez, di Juan Carlos Onetti e del “bue alla creola”: l'Uruguay.
Lo stato confina a nord proprio con il Brasile e i rapporti calcistici fra i due paesi sono, ancora oggi, legati indissolubilmente a ciò che accadde il 16 luglio 1950 al Maracanà: i verdeoro perdono, contro ogni pronostico, la finale dei mondiali contro la “Celeste” di Varela, Ghiggia e Schiaffino. Cosa accadde a seguito quella partita è storia conosciuta da tutti (o quasi): decine di infarti dopo il triplice fischio, suicidi nei giorni successivi, il commissario tecnico Flavio Costa fu costretto a fuggire in Portogallo, il difensore Danilo tentò di togliersi la vita. Nonostante il Brasile abbia avuto modo, nelle edizioni a venire, di imporre spesso il proprio dominio, la ferita subita quel giorno continuò a bruciare e gli effetti non si sono estinti nemmeno oggi, almeno nell'immaginario culturale/letterario, sessantatre anni dopo. La metafora del Brasile, patria del calcio bello e vincente, che viene oscurato dai dirimpettai meno nobili fa capolino anche a San Siro, quel 31 agosto. Tutti aspettano lui. Tutti aspettano Ronaldo. Al calcio italiano, invece, fa il suo maestoso inchino un ragazzetto con la faccia da cinesino e i piedi da alieno: Alvaro Alexander Recoba Rivero. L'Inter fatica più del previsto contro il neopromosso Brescia: la partita subisce un inatteso cambio di rotta a diciotto minuti dalla fine: Pirlo serve, Hubner segna. I biancoazzurri vanno in vantaggio. San Siro tace, ribolle di rabbia e delusione, ma deve attendere poco, prima di ammirare l'immensa classe del giovane Alvaro. Prende, qualche attimo prima del gol delle Rondinelle, il posto di Maurizio Ganz: impiega sei minuti per entrare nella storia. Controllo e tiro dalla lunga distanza, collo esterno, la palla gira e Cervone può solo cercare di volare, quella però sfila via e s'insacca, feroce e decisa, all'incrocio dei pali. E' pareggio, l'eclissi del “Fenomeno” sta compiendosi. Passano otto minuti: Moriero si conquista un calcio di punizione, cinque metri fuori dall'area. S'incarica ancora lui, “El Chino”. Con estrema consapevolezza dei propri mezzi Alvaro sistema la palla, si carica sulle spalle i settantamila di San Siro, spegne e accende la luce a suo piacimento, come farà poi in tutta la sua carriera. Batte Cervone sul suo palo, lo sfida mettendo la palla ancora sotto l'incrocio, inesorabile come un boia dai tratti docili ed esotici. Sarebbe stato troppo facile se il 31 agosto 1997 fosse stato l'inizio di una carriera sfavillante, sarebbe stato tutto troppo piatto, per uno come lui. Recoba passerà tutti gli anni a venire a fare l'equilibrista e il funambolo, il clown felice ed il Pierrot: fuggendo fra difensori ubriacati dalle finte, disegnando traiettorie ai limiti della comprensione fisica, ma non solo. I suoi dribbling proseguiranno anche tra tribunali (venne squalificato per la vicenda dello “scandalo passaporti”), ospedali e cali di forma vertiginosi. Recoba diventerà, senza troppa fatica, il simbolo del fenomeno incompiuto, bersagliato dalla sfortuna e dai tackle avversari ma, spesso e volentieri, bersagliato da se stesso e dalla propria allergia e avversione alle regole, ai ritmi europei, al calcio “industriale”. Moratti, come spesso accadeva e accade, se ne innamora e, a parte una proficua parentesi con la maglia del Venezia, lo lascerà andare solo nel 2007, dopo 176 presenze e 53 reti in Serie A. La sponda nerazzurra di Milano vivrà la separazione dal “Chino” in maniera ambivalente: la frustrazione per le inespresse potenzialità del gioiello di Montevideo si mescolerà con la malinconia per la perdita di un pittoresco poeta del calcio, un cavallo pazzo che non è mai diventato stallone purosangue. La sua carriera proseguirà in Italia, a Torino ed in Grecia, vestendo la maglia del Panionios.
Recoba dopo un goal, in maglia Nacional.
 Non lascerà tracce significative, segnato ancora una volta dagli infortuni. Il richiamo della sua terra si farà sentire e, Recoba, cede alla tentazione di tornare nel suo Uruguay. Prima Danubio, poi Nacional, come agli albori della sua carriera. Alvaro rinasce in poco tempo: il ritmo più compassato del calcio sudamericano gli giova, il popolo celeste lo ammira e lo adula ed è pronto a farsi incantare dalle sue magie. Il figliol prodigo, strappato da ragazzino dalla madre Patria per sette miliardi di lire, ritorna a casa e, come un vecchio saggio che ha girato il mondo, ammalia chi lo ammira, chi segue le sue gesta e le sue narrazioni fatte di lanci, dribbling, tiri al fulmicotone. Recoba rinasce, Recoba scrive ancora poesia, col suo mancino fatato e il suo inafferrabile passo felpato, rimasto sempre quello anche dopo decine di infortuni e manciate di chili presi e persi a periodi alterni. Recoba continua a dipingere, Recoba continua a vivere nella memoria di tutti quelli che, nella propria vita calcistica e privata, vivono soffrendo, sommersi da rimpianti, consolati però dal grande merito di aver lasciato un segno, di aver stupito qualcuno, di esser stati “al di fuori”. Al di fuori degli schemi, al di fuori delle convenzioni, al di fuori della logica. Recoba è stato questo e molto altro, paradosso continuo, tesi e antitesi insieme, materia e anti-materia. Re e schiavo dei propri limiti. Limiti che, però, gli sono stati imposti sopratutto da un beffardo destino: il talento di un Dio intrappolato in un corpo fragile, troppo, per reggere l'ascesa verso l'Olimpo. Se fosse salito, forse, sarebbe stato tutto troppo facile. Lui s'è fermato lì, alla prima piazzola di sosta dopo qualche tornante. Mangia il bue alla creola e continua a palleggiare, si diverte. Quelli che salgono, i giovani fenomeni dell'oggi e del domani, sono costretti a guardarlo. Lo guardano mentre si portano dietro ore di lavoro, pressioni, gol, trofei. Pesano clamorosamente. Lui sorride, li compatisce. Leggero e leggiadro. Un Dio pigro e sfortunato che prende in giro tutti gli Ercole che gli stanno attorno. Aveva iniziato con Ronaldo, chissà quanti altri dovranno vivere col fantasma del “Chino”: tanti, questo è certo, perché nessuno dimentica chi, sacrilego, ha sgambettato le divinità e giocato a nascondino col destino.

Gian Maria Campedelli


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