giovedì 31 gennaio 2013

BRENTFORD-CHELSEA: CRONACA DI UN ALTRO CALCIO


Sì, anche questo è tecnicamente un derby. Solo che nessuno, dall'altra parte, lo percepisce come tale. Arriviamo allo stadio che manca meno di un'ora. Il nostro stadio. Griffith Park si annuncia al completo, esauriti i biglietti, nessun seggiolino vuoto. Il nostro catino, stavolta, diventerà il centro del Regno d'Inghilterra. Si respira un'atmosfera strana, quel misto di timore e rispetto che va a mescolarsi con l'incosciente ottimismo di chi conosce il football, di chi sa come vanno certe cose. Quell'incoscienza che appartiene solo a chi percepisce la magia. La palla rotola impazzita. Le gioie degli uni, le tragiche cadute degli altri. Il sole bacia Brentford, quasi acclamando un'insperata impresa: accanto a me i soliti amici. Il gruppo storico: Jamie, Ed, Stan, The Bouncer, Frankie Valentine. Saremo presto dodicimila. Domenica ventisette gennaio. Mezzogiorno. Oggi c'è il Brentford, oggi è FA Cup. Oggi arriva il Chelsea.
Griffith Park, la casa del Brentford Fc.
Il nostro campionato non sta andando tanto male. Categoria strana, la League One. Sei punti dal vertice, ma siamo in sette club nel giro di undici punti: questa, però, è un'altra storia. C'è chi dice che in Inghilterra la coppa nazionale sia più importante del campionato stesso. Chi può dirlo, barattare un anno di sacrifici e trasferte, di tante vittorie e poche sconfitte, con una sola notte magica è un processo che logora, meglio non pensarci. La mia pancia piena di Thomas Hardy's, la birra migliore che esista, e panini assortiti. Non abbiamo aliti deliziosi, suppongo. Non siamo neanche bellissimi, a dirla tutta. A Frankie Valentine mancano due denti, li ha persi in gioventù quando giocava a rugby: arrivò fino alla serie B o qualcosa del genere, poi si diede definitivamente all'alcoolismo e, a detta sua, è stata la scelta migliore che potesse fare. Siamo simpatici, però. Parliamo con due biondine, dicono di non essere di qui. Accompagnano un amico che è appena andato in bagno, dicono. “Maledetto cazzone, due al prezzo di una”, pensiamo noi tutti. Ci guardiamo. Una è alta, l'altra bassetta, ci perdiamo quasi tutto il riscaldamento per conoscerle. Poi, dopo venti minuti, torna il bastardo. Un gigante che abbiamo già visto molte volte qui al Park. Ogni tanto viene pure in trasferta. Uno stronzo. Lui e quelle due, ci giriamo e cominciamo a cantare.

And it's super Brentford,
super Brentford Fc,
we're by far the greatest team
the world has ever seen!”

Dimenticato presto lo stronzo con le due fatine. Scoccano le dodici, le squadre sono dentro. I giocatori delle squadre di Premier sembrano sempre degli eroi. I nostri, invece, gregari, operai, studenti e talenti persi nel vuoto. Spaesati, ammaliati anche loro dai colori e dalle toppe e dalla grafica dei numeri sulle maglie degli avversari. Hanno quasi tutti i titolari, in campo. Ci sono Terry, Lampard, Torres, Oscar. Noi rispondiamo con Trotta, Forrester, Diagouraga. Siamo orgogliosi di quello che siamo: la squadra di un quartiere, di un territorio. Piccolini, sfigati, mai vincenti. Eppure eccoci qui, come ogni maledetto week-end. Il Griffith Park ondeggia tra l'esaltazione di noi che cantiamo, e il timore delle signore sedute sulle tribune con i guanti del club. Si gioca.

Mal di stomaco, tremo, agitazione, canto. Inveisco. Adoro il football. Poi al quarantunesimo minuto impazzisco. Rubiamo palla fuori dall'area, Forrester calcia, Turnbull la respinge sui piedi di Trotta. Tiro secco, sul primo palo. Credo. Due giganti davanti a me mi ostruiscono la visuale, so solo che andiamo in vantaggio. Trotta. La promessa italiana mai mantenuta. Siamo avanti noi: prima della fine del primo tempo, momento decisivo di molte partite. Il duplice fischio arriva presto, quel che si respira durante l'intervallo è indescrivibile. Davide e Golia, per l'ennesima volta, dalla Bibbia alla realtà. Se Dio esiste, ora è qui, a Brentford. E ha la sciarpa biancorossa.


E' presto tempo di tornare in campo, e non ci mettiamo molto a tornare sulla terra. The Bouncer, che è il meno ottimista della banda, inizia a mordersi il colletto del giubbino. Ne ha fatti fuori a decine con quel dannato vizio: quando lo fa, vuol dire che sta per succedere qualcosa. E in effetti, anche stavolta il suo odioso sesto senso non sbaglia. Ci dobbiamo inchinare ad Oscar, ragazzino magrolino con lo sguardo timido e i piedi che scrivono poesie. Un gol meraviglioso, sotto il nostro settore. Stavolta la palla la vedo, si infila sotto la traversa, i due scimmioni davanti non si muovono. Sono due gargoyle, pietrificati. L'atmosfera cambia, ma non smettiamo di gridare. Ci siamo ancora, c'è un tempo da giocare e ne siamo certi, Dio è qui oggi. Non andiamo in Chiesa dalla prima comunione, a parte Ed che ha sempre dovuto fare il bravo nipote e allora ogni tanto ci accompagnava la nonna, ma non importa. Lui c'è. Un minuto dopo Mata va vicino al gol, tremiamo, ma non cadiamo. 
Adeyemi salta Turnbull: calcio di rigore.
Passano circa venti minuti, e accade un'altra magia. Adeyemi, appena entrato, punta l'area e salta Turnbull. Cade, l'ha preso. “Penalty!”, urla Valentine. L'arbitro fischia subito. Il rigore c'è, sacrosanto: vedo che una delle biondine mi guarda, ammiccante. Non mi giro nemmeno, anzi forse solo un pochino. E' bella davvero, cazzo, peccato stia giocando il Brentford e, ancor di più, peccato che ci sia un rigore per noi. “I am here for football, baby”.
Sistema la palla sul dischetto Forrester. Ragazzino forte, ventuno anni, preso dai Villans. Sono secondi interminabili, poi parte la rincorsa, e per un istante sembra che tutta Londra taccia. Il tempo si ferma, in quegli attimi, tranne che per Forrester che corre verso il pallone. Lo calcia. E' un tiro angolato, ma debole, Turnbull si stende, Dio è con noi. La palla entra, Griffith Park si infiamma. Siamo ancora avanti, a meno di venti dalla fine. Ci strattoniamo, saltiamo, volano sberle e pizzicotti amichevoli. La folla inghiotte le due bionde, amen. The Bouncer prende in braccio Ed e Jamie. Li alza di peso, loro urlano e non importa a nessuno dei due se le loro giacche di lì a poco si strapperanno. Tutto lo stadio sembra alzarsi verso il cielo, di fronte a noi quelli del Chelsea sono muti. Il vento e il Brentford li hanno pietrificati. Mi scappa una risata, la dedico a loro.

La partita, però, non è destinata a finire così. Il nostro capolavoro ce lo rovina il campione triste del Chelsea, Torres. Segna da fuori, a giro, dopo che Ba è riuscito a mantenere viva la palla al limite dell'area. Moore battuto ancora. Un gran gol, anche questo lo vedo bene. I Gargoyle non si muovono, a me cade la sigaretta dalla bocca, impreco. Sono ancora vivi. Il nostro silenzio dura poco, partiamo all'unisono a cantare ancora.

Oh West London
(Oh West London)

It's wonderful
(It's wonderful)

Oh West London is wonderful
It's full of tits, fanny and Brentford

Oh West London is wonderful!


Non ho più voce, triplice fischio. Due a due finale, cantiamo ancora. Sai, Dio, è meglio così. Vuol dire che ti sei divertito e vuoi rivedertela. Pazienza se non sei dalla nostra parte. Tra venti giorni ce la rigiochiamo. Si va da loro, stadio sfavillante, sponsor, turisti in visita. Noi ci saremo. Con o senza di te.

Li ringraziamo tutti, cantiamo, festeggiamo. Siamo noi gli eroi, i biancorossi che nessuno conosceva fino ad oggi, lo stadio stenta a svuotarsi. Stan mi urta ancora: “Pub?”. “Sì e...”, do un'occhiata alle bionde. Sparite, c'è solo lo stronzo che era con loro. Sono sicuro di essermele sognate, maledetta birra. Mi strattona ancora, “e?”.
“Niente, pensavo”.
“A cosa?”
“Al fatto che amo il football”.
Il sole è sceso, il vento gelido ci è entrato nelle ossa e ora inizio a sentirlo. Poi parte ancora un coro. La festa non finirà.

Gian Maria Campedelli

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